Un contributo sul cosidetto “Eccidio di Schio”

Riportiamo un contributo scritto di recente sulla vicenda del cosiddetto “eccidio di Schio”, annualmente celebrato dai gruppi neofascisti del Nord-Est. 

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Questo testo vuole essere un piccolo contributo e dare un punto di vista in merito a una vicenda che si verificò subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e passata alla storia come il cosiddetto “eccidio di Schio”.Rispetto a questo evento abbiamo sentito la necessità, da un lato, di fornire dei cenni storici con l’intento di ricostruire quanto avvenuto in quella precisa circostanza non a tutti nota. Dall’altro lato, abbiamo sentito l’importanza di dare una chiave di lettura interpretativa rispetto ai fatti dell’eccidio stesso.

Ciò che ci ha mossi è la volontà di spiegare quello che è successo nel concreto per prendere un posizione chiara e di parte, anche di fronte a un episodio come quello di cui ora andremo a parlare che, a una lettura superficiale, potrebbe sembrare scomodo e difficile da rivendicare/difendere. Infatti, pensiamo che solo muovendosi in questa direzione sia possibile contrastare il continuo avanzare del revisionismo storico, sia esso di destra o di sinistra, senza fare alcun tipo di distinzione. Sono ormai anni che assistiamo al graduale, ma costante spogliamento del patrimonio lasciatoci dalla Resistenza partigiana, costantemente infangata attraverso l’inversione dei ruoli: in questa messinscena gli antifascisti divengono spietati assassini e i fascisti, invece, povere vittime della criminale violenza partigiana. L’intento dei revisionisti è molto chiaro e consiste nell’atto di riscrivere il passato con il fine ultimo di poter poi mantenere il controllo/dominio del presente.Questo è sicuramente funzionale alla fase attuale caratterizzata dall’impennare della crisi economica del capitalismo, un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e in grado di generare soltanto guerra e oppressione.
Proprio tale contesto rappresenta un clima propizio per lo sviluppo delle lotte e in quanto tale la pace sociale deve essere mantenuta a tutti i costi.
E’ in questo senso che ai padroni risulta comodo annientare ogni traccia degli insegnamenti lasciati da chi scelse di lottare, armi in pugno, il nazi-fascismo,nella convinzione che fosse possibile costruire un altro modello di società.

Sta a noi, oggi, far vivere la memoria partigiana togliendo spazio a fascisti e revisionisti di ogni risma. Questo è possibile solo continuando a tramandare gli esempi positivi che essa ci ha trasmesso e attualizzandoli nella realtà quotidiana in cui ci troviamo ad agire e lottare come antifascisti/e.

L’ “Eccidio di Schio”: un esempio di giustizia popolare

A poco più di due mesi dalla Liberazione di Schio dal nazi-fascismo, avvenuta il 29 aprile del 1945 per mano delle brigate d’assalto garibaldine, un gruppo di partigiani fece ingresso nelle carceri mandamentali di Schio, dove all’epoca erano detenute circa un centinaio di persone. Tra di esse si contavano numerosi fascisti che nel corso del ventennio avevano ricoperto incarichi politici e istituzionali e che successivamente si erano compromessi anche con la Repubblica Sociale Italiana. L’azione fu portata avanti da una squadra di almeno una dozzina di partigiani armati e mascherati, che, su un primo momento, separarono i prigionieri comuni da quelli cosiddetti politici: questi ultimi, ovvero i prigionieri fascisti, vennero sottoposti a un sommario processo popolare e dopo di che, coloro che furono ritenuti colpevoli e maggiormente responsabili di crimini compiuti durante il ventennio, vennero giustiziati a raffiche di mitra. Il bilancio complessivo fu di 53 morti e 20 feriti. Di questi 47 persone persero la vita nell’immediato,mentre altre 6 morirono nei giorni successivi in ospedale. Nello specifico, trai detenuti uccisi, feriti o scampati c’erano: fascisti che avevano svolto alte cariche nella R.S.I. a Schio e nei comuni circostanti; segretari politici e amministrativi del Fascio e i loro diretti collaboratori; picchiatori e militi della Guardia Nazionale Repubblicana, della Brigata Nera, della Polizia Ausiliaria che avevano partecipato a rastrellamenti, interrogatori e torture;approfittatori che avevano tratto guadagno facendo affari con gli occupanti;infami che avevano contribuito a riempire le liste dei perseguitati e delle persone che sarebbero poi state deportate in Germania.
Nei giorni che seguono il 7 luglio, vennero tratte in arresto 5 persone identificate tra i partecipanti all’azione, mentre altri 8 partigiani si diedero alla latitanza, riparando nella Jugoslavia di Tito. Lì alcuni di essi furono impiegati nella Milizia Popolare e contribuirono alla Resistenza antifascista. I 5 partigiani arrestati, invece, andarono incontro a un processo militare che si tenne a Vicenza, il cui esito diede luogo a tre condanne alla pena di morte e due all’ergastolo. Le prese di distanza e i tentativi di criminalizzazione non tardarono ad arrivare. A scagliarsi contro le gesta dei partigiani c’è in primis “l’Unità”, cioè il massimo organo di stampa del Partito Comunista Italiano(P.C.I.), il quale da subito disapprovò pubblicamente i fatti appena descritti,bollandoli come “un gesto di pochi irresponsabili, trascinati da un impeto di bestiale furore”. La risposta immediata della cittadinanza di Schio, al contrario, espresse solidarietà scagliandosi in massa dalla parte dei condannati alla pena capitale attraverso scioperi e manifestazioni. In seguito,le pene vennero commutate e i partigiani scarcerati dopo dieci anni di detenzione.
La ferma determinazione con cui gli abitanti di Schio si schierarono contro la repressione nei confronti di quei partigiani che organizzarono l’azione è un buon punto di partenza per spiegare meglio il contesto storico e politico di cui stiamo parlando,all’interno del quale si colloca la scelta di giustiziare i repubblichini incarcerati. In primis, è importante dire che nonostante la seconda guerra mondiale fosse terminata ormai da due mesi e parallelamente fosse stato varato un decreto che legiferava sullo scioglimento dei corpi partigiani e sulla restituzione delle armi, la Resistenza non era affatto cessata. Ciò era dovuto al fatto che, con il 25 aprile, la cosiddetta “Liberazione” non poteva dirsi compiuta. A dimostrarlo era la pratica reale delle cose: infatti, subito dopo la fine della guerra si constatava immediatamente come era a tutti gli effetti mancata l’epurazione di coloro che, durante il ventennio, avevano sostenuto in maniera attiva e partecipe il regime fascista e collaborato con il Comando tedesco. Di fatto, c’era stata una pressoché invariata continuità tra il fascismo e la nascente democrazia borghese. Ciò che cambiava era la maschera indossatad allo stato, che prima aveva adottato la forma della dittatura, mentre ora assumeva una facciata democratica. Tuttavia, per quanto l’apparenza fosse ingannevole nella forma, la sostanza faceva trapelare tutto il contrario. Questa situazione aveva provocato una profonda delusione tra tutti gli antifascisti, cosa che aveva immancabilmente portato ad avanzare l’idea che l’unico modo per ottenere giustizia fosse quello di mettersi in prima persona. Per rendere meglio l’idea,nel piccolo contesto di Schio “I tribunali del luogo e di Vicenza, le autorità di polizia sono (…) straordinariamente indulgenti verso i fascisti (…). Ne avevano già scarcerati 300 e promettevano ai rimanenti che presto sarebbe giunto il loro turno” (frammento tratto da quanto scrive “l’Unità” alla data del 12 luglio 1945). In buona sostanza, ciò che gli abitanti di Schio temevano era che i fascisti detenuti venissero rimessi in libertà di lì a non molto tempo.
Paura che, nell’arco di appena un anno, si rivelò più che vera con la famosa amnistia che, nel giugno del 1946, l’allora ministro della Giustizia Togliatti concesse ai fascisti in carcere.
In più, in tutto questo contesto,va tenuto in considerazione come nel territorio scledense, e in generale nella zona del vicentino, la lotta antifascista si era sviluppata in modo particolarmente cruento e il prezzo pagato dai partigiani aveva raggiunto livelli molto alti. Per dare qualche dato, si stimano: 153 caduti in azione, 33 fucilati, 12 internati a Mauthausen (tra questi 11 non tornarono a casa vivi),innumerevoli prigionieri. Senza dimenticare i vari eccidi commessi dai tedeschi sotto forma di rastrellamenti come nella contrada Vallortigara, a Pedescala e a Malga Zonta per fare qualche esempio. Bisogna aggiungere poi che i giorni precedenti il cosiddetto “eccidio” furono contraddistinti da una forte tensione dovuta al fatto che a fine giugno in città era giunta la notizia della morte di tutti i deportati scledensi nei campi di concentramento nazisti (informazione recuperata dall’unico superstite ritornato in città). In particolare, il 28 giugno del 1945 si era svolta una manifestazione operaia e popolare,partecipata da più di cinquemila persone, nel corso della quale pubblicamente ci furono numerose incitazioni al linciaggio dei fascisti imprigionati nel carcere di Schio. Nei giorni a seguire ci furono altrettante manifestazioni di sdegno e rabbia nei confronti dei repubblichini ancora incarcerati.
Quelli appena riportati sono tutti aspetti determinanti per inquadrare il clima che si respirava nel periodo appena antecedente l’eccidio e in seno al quale i partigiani maturarono la decisione di mettere in pratica autonomamente la “giustizia popolare”. L’”eccidio di Schio” non fu un episodio portato avanti da qualche “testa calda”, sconnessa rispetto al tessuto sociale cittadino, ma ciò che venne fatto andava in linea con quello che era il pensiero diffuso tra la popolazione e manifestato in più occasioni da chi, in vent’anni di soprusi, aveva conosciuto sulla propria pelle il fascismo e con esso guerra, fame, morte e distruzione. L’”eccidio di Schio”non fu nemmeno un gesto isolato perché di situazioni ricollegabili a questa cene furono di vario genere come la Volante Rossa, esperienza che sorse negli anni immediatamente successivi al ’45 e che operò nella zona di Milano,praticando a sua volta azioni di ”giustizia popolare” contro fascisti rimasti impuniti oltre contro dirigenti d’azienda. In conclusione, per terminare questa panoramica generale, la riflessione che ci sentiamo di trarre è legata a un unico comune denominatore che va ricercato nella cosiddetta Resistenza tradita. Una volta ingannate le aspettative dalle derive revisioniste, ci fu chi tra i partigiani intraprese coraggiosamente la scelta di farsi giustizia da se, con le proprie mani e senza quindi delegarla a nessuno.

Antifascisti/e
Luglio 2015

Informazioni su Assemblea Antifascista Trento

Assemblea Antifascista di Trento, nata a seguito dell'apertura della sede trentina di CasaPound. Ci troviamo ogni mercoledì, dalle 18, all'interno della facoltà di Sociologia.
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